Me lo sto chiedendo spesso in questi giorni.
C’è qualcuno, chiunque, che è veramente felice, in questo momento? Almeno una persona?
Esistono tre tipi di persone, in merito al problema della felicità (con felicità intendiamo un generale senso di soddisfazione e di serenità nei confronti della propria vita):
- Chi è felice
- Chi fa finta di esserlo
- Chi non lo è
Come risolve, la nostra società, il problema di questi ultimi? Per rimanere sul semplice diremo che questa terza situazione (l’infelicità), viene gestita dalla “psicologia” (intendendo con questo termine tutta una serie di discipline, protocolli, e infrastrutture naturalmente molto più complesse di ciò che il termine stesso descrive). In questo senso, la “psicologia” si occupa quindi di rispondere al problema dell’infelicità, “in qualche modo”.
Essendomi interessato molto di “salute mentale”, negli anni, ho notato però come nessuno dei percorsi attualmente proposti dalla psicologia conduca realmente a uno stato di benessere.
Primo, trovo assurdo “prescrivere la felicità”, in maniera obbligatoria, a tutta quanta la popolazione, pena la reclusione o la “riformazione” della coscienza degli individui “disobbedienti”. Secondo, l’infelicità in psicologia viene elaborata come un problema, un difetto, o addirittura una colpa, che riguarda esclusivamente l’individuo. La verità è che invece spesso l’individuo stesso non può farci niente, e la causa dei suoi stessi problemi è ben più complessa di quanto sembri. Terzo, questa felicità viene inquadrata in una “normalità”, che nessuno si preoccupa di definire, ma che finisce per definire la vita di tutti.
Di fatto, abbiamo dato alla “psicologia” (ma in realtà stiamo parlando di qualcosa di un pochino più complesso), il compito di definire che cosa è felicità, che cosa non lo è, e come passare dall’uno all’altro stato. Tutto ciò in teoria. In pratica, ciò non accade. Nella maggior parte dei casi infatti, chi “soffre” di infelicità, quando si rivolge alla “psicologia”, non trova affatto un aiuto concreto, non certo nella direzione di “ritornare felice”.
Piuttosto, ci si assicura che questa persona “non faccia del male a nessuno”, come prima cosa. Questo può implicare diverse cose non positive, per la persona stessa, inclusa la sua rimozione dalla società. Come secondo passaggio, si procede a reinserire la persona stessa in un contesto “normale”. Ma ancora una volta, questa normalità (se non altro dal punto di vista strettamente filosofico) è estremamente difficile da definire, e viene il più delle volte individuata attraverso “luoghi comuni”, o “norme”. Questo, naturalmente, è un modo gravemente problematico e disfunzionale di procedere.
In breve quindi, la psicologia non fa altro che premere dei pulsanti, intervenire sull’individuo infelice, ma non a suo vantaggio, quanto piuttosto a salvaguardia di:
- La sicurezza del resto della società
- La normalità, il normale corso degli eventi
Questo significa che un possibile risultato della “psicologia”, ovvero di tutto ciò che si dichiara al servizio del benessere individuale dei cittadini, potrebbe essere il seguente:
- Una persona viene resa “sicura” per tutti gli altri e per se stessa
- Una persona viene resa “normale” di nuovo, ovvero in grado di svolgere la sua vita in maniera regolare. Ancora una volta, la definizione qui è molto lasca ma potremmo dire che dorme, mangia, lavora, in maniera “funzionale”. Funzionale per chi? Funzionale per che cosa? Non ci è dato saperlo.
- Questa stessa persona, dentro di sé, prova tutt’ora però una gigantesca sofferenza, un profondo stato di infelicità. Tutto ciò, pur continuando a soddisfare i criteri della “psicologia”, che in questo caso secondo la società in cui tutti viviamo avrebbe fatto “un buon lavoro”.
In poche parole, è possibile che la nostra società stia in questo momento fabbricando sistematicamente persone infelici. Ma che sono sicure per se stesse e per gli altri. Ma che funzionano. Infatti, non è detto che la felicità sia una conseguenza necessaria della normalità, e nella psicologia soltanto quest’ultima viene garantita.
Come potremmo sapere infatti che qualcuno, dopo essere stato sottoposto a del lavoro psicologico, è più felice di prima? La felicità non è misurabile, la normalità sì. Non conosciamo realmente lo stato interno delle altre persone. La felicità è qualcosa di intrinsecamente soggettivo, sta alle persone stesse “conoscere” o “determinarne” la sua presenza o meno. La normalità è qualcosa di oggettivo e determinabile dall’esterno. Per questo la psicologia non può far altro che occuparsi di quest’ultima.
Queste osservazioni, conducono a una conclusione un po’ inquietante. E se nessuno, in questo momento, fosse davvero felice? Di nuovo, come potremmo saperlo?
Chi appare infelice viene ridirezionato nei “percorsi” della “psicologia”, talvolta a suo estremo danno. Chi invece appare felice potrebbe benissimo non esserlo autenticamente. Come mai una tale scelta? Perché non chiedere aiuto? Ancora una volta, i potenziali danni di chi sceglie di seguire la strada del “supporto psicologico”, sono ahimè incalcolabili. Ci sono i danni causati dalla prescrizione errata di farmaci, quelli causati dalla prescrizione non errata di farmaci che hanno effetti collaterali pesantissimi, e quelli causati dalla stigmatizzazione e dall’isolamento (è noto che essere riconosciuti come mentalmente “problematici” costituisca un sostanziale svantaggio in diversissimi contesti sociali, in particolar modo legati al denaro). Per non parlare dei danni relativi al dover passare attraverso tutta una serie di riprogrammazioni e protocolli, atti solamente a “rinormalizzare” l’individuo, e nel peggiore dei casi a renderlo innocuo.
Capisco quindi l’esigenza di “mascherarsi”, di fingersi felici, di indossare il sorriso e i buoni pensieri come un ennesimo strato di abiti. Se non sei felice, non puoi vendere, non puoi lavorare, non puoi “funzionare”. Ma molto spesso, non ti serve nemmeno esserlo, ti basta fingere!
Mi guardo attorno. Vedo persone che sono felici “per lavoro”, che devono mostrare il sorriso, per forza. Devono dire che stanno bene, per forza. E in pratica, tutti i lavori del mondo hanno questo requisito. Persino “vivere normalmente nella società”, ha questo requisito.
Se ti guardi intorno anche tu, noterai come stanno tutti bene. In superficie. Quanti di loro stanno bene veramente, quanti invece hanno semplicemente rinunciato ad esprimersi?
E se nessuno fosse felice? E se tutti quanti stessero fingendo?
Compreso tu?